bloud nasce dal vuoto, di quel vuoto si nutre e in quel vuoto spera di rimbombare

E intanto l’uomo muore, diceva un certo signor G.

C’è un documentario interessante che viene proiettato in questi giorni nei cinema sfigatelli che vanno teoricamente di moda a New York  : Death by China.

È la storia di un governo che, dopo aver nutrito per decenni il suo popolo a colpi di pane e consumismo annaffiato da fiumi di idiozia leggermente frizzante, ad un certo punto vede rosso e si appella disperatamente alla sua lucidità e al suo senso etico.

È anche la storia di come politici e cosiddetti intellettuali, per promuovere questa sorta di ‘consumismo etico’ mirato ed imparziale, scelgano di appellarsi principalmente a due fattori: la potenziale letalità dei prodotti cinesi e la perdita di posti di lavoro che l’esplosione dei suoi acquisti comporta.

Dopo, solo dopo, provano timidamente a giocarsi la carta delle condizioni degli operai cinesi. Obbligati a lavorare per una media di 13 ore al giorno per 34 centesimi l’ora.

Di loro si parla dopo.

Come se non fosse questo l’argomento in grado risvegliare le coscienze della maggioranza degli americani, Yankees e cowboy.                                                                                         O forse meglio non risvegliarla troppo. Chissà.

E intanto l’uomo muore, diceva un certo signor G.

Mi ha ricordato un’altra storia.                                                       La nostra.                                                                                                                                                                                                     La storia di un paese in cui da qualche decennio la politica ha deciso di rinunciare alla crescita dell’uomo per far spazio alla costruzione del cittadino. Più facile far seguire una legge che trasmettere un valore.  La storia di un paese in cui la politica sempre di più sceglie di gestire i suoi cittadini sottraendogli la possibilità di capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.                                                                         Un paese in cui si indottrina la maturità vietando il divertimento e la politica si trattiene dalla tentazione di rubare mettendo in discussione l’intero sistema del finanziamento pubblico ai partiti.                                                                                                                  Un paese la cui storia è stata costruita e costituita sul diritto al lavoro e la cui storia passa quindi necessariamente per questa questione.

C’è un gran discutere sull’articolo 18, di questi tempi.

A destra dicono che tanti lavoratori, soprattutto pubblici, non fanno niente. A sinistra dicono che la sicurezza di un posto fisso è necessaria. Gli operai dicono boh e le esperienze di vita quotidiana ti dicono di vergognarti perché troppo spesso ti trovi a comprendere le ragioni della destra.

Nessuno, né a destra né a sinistra, dice che è semplicemente sbagliato. Che c’è un limite entro il quale non è più giusto annientare la libertà di scelta e di azione dell’uomo per creare un cittadino più “responsabile” e funzionale, che le due cose non devono per forza essere inversamente proporzionali.                                                 Nessuno sembra far riferimento al fatto che non è questa la strada, che in un paese fondato sul lavoro la diffusione dell’etica del lavoro deve precedere qualsiasi azione politica e normativa. Perché senza di quella, leggi e minacce sono solo toppe provvisorie attaccate con lo sputo sui buchi di un sistema che fa acqua da tutte le parti.        Nessuno sembra interessarsi del fatto che il lavoro non si insegna premiando la furbizia e uccidendo la meritocrazia. Non usando la minaccia del licenziamento nè men che mai premiando una vita di lavoro con il posticipo della pensione.

Questo, né a destra né a sinistra, nessuno lo dice.

Ho visto però un documentario che racconta di come tutti i nodi alla fine vengano al pettine e di come il cittadino, senza l’uomo, sia in grado di seguire leggi e far funzionare l’economia, ma non di interiorizzarle e di agire coscientemente.

Dovrebbe essere questa la priorità della politica, perché è solo attraverso lo sviluppo di una coscienza individuale nuova che un qualsiasi cambiamento reale è immaginabile.

Ma questo, né a destra né a sinistra, nessuno lo dice.                  Forse perché è troppo tardi, o forse perché la politica è fatta di altro: di concretezze e progetti a breve termine che mirano ad abbassare lo SPREAD, far crescere il PIL, vendere BOND e tranquillizzare la BUNDESBANK.

E intanto l’uomo muore, diceva un certo signor G.

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Lo stadio Olimpico è già tutta una festa quando lo speaker annuncia l’esecuzione dell’inno e dagli spalti si innalza  un coro di fischi che in un attimo scatena il panico.

Il microfono non arriva. Gli onorevoli volti inquadrati nelle tribune impallidiscono. Il commentatore  si affretta a tranquillizzare il pubblico a casa: si tratta solo di qualche fischio “sicuramente da stigmatizzare”. Arisa fa del suo meglio per sovrastare  il rumore dei fischi e porta a termine il suo compito. Schifani nel dopo partita si sconvolge e tira in ballo morti ed ideali.

Si danno  tutti decisamente un gran da fare per educarci a scandalizzarsi in coro. I fischi all’inno si trasformano immediatamente in fischi offensivi e antinazionalistici di una piccola minoranza radicale. E, come da copione, mentre la televisione minimizza e distrae, la politica impallidisce e fa finta di non capire. Scomoda storia e ideali astratti, si indigna e ci fa indignare. Tutto, piuttosto che ammettere il fatto che quei fischi sono tutti concretamente rivolti proprio a lei, ad una classe dirigente sempre più inadeguata e più sorda alle nostre contestazioni. E così lo Schifani di turno scomoda sacrifici e solidarietà, si sconvolge istituzionalmente e ignora il centro della questione. Si affretta  a condannare e criminalizzare di riflesso ogni gesto che abbia il potenziale di trasformare ogni brusio di malcontento in un coro di rabbia forte e condiviso.

C’è una linea ben definita che divide terrorismo e incazzatura, estremismo e rabbia. E’ una linea che la politica e le istituzioni tendono ad ignorare e che l’opinione pubblica non sa ben distinguere, ma che esiste e  può influenzare pesantemente il futuro del nostro Paese. Benvengano i fischi all’inno. Benvengano tutti i gesti che hanno il potere di sbattere in faccia alla nostra classe dirigente un malcontento che viene ostinatamente ignorato.

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Ho seguito il movimento di Occupy Wall Street fin dall’inizio. Ho visto le marce sul ponte di Brooklyn, la manifestazione di Times Square, il discorso di Saviano, le repressioni della polizia, lo sgombero di Zuccotti Park e la sua rioccupazione. L’atmosfera è sempre bella. Ci sono i cori, gli slogan, la solidarietà e la partecipazione. C’è la felicità. 

Ma proprio lì, radicata nella felicità della gente c’è anche la sconfitta del progresso e della società moderna.
Sta nascosta in una felicità genuina e spontanea, molto simile a quella della folla che il 12 novembre scorso si riversava in piazza del Quirinale per festeggiare il fatto che un puttaniere indagato e corrotto stesse lasciando la poltrona su cui si era seduto per 7 anni, spinto dal rischio dell’imminente fallimento economico del suo paese.

Ho parlato con molti degli occupiers e sentito molti commenti a riguardo. Zuccotti park, cuore pulsante della protesta, è per la stragrande maggioranza frequentato da studenti di college pubblici, giovani delle classi più basse e hippies, novelli o nostalgici. Si ispirano a Marx e citano Jefferson, vogliono abbattere il capitalismo ed eliminare le banche. Hanno un programma utopico che tra i suoi punti propone di statalizzare le università, abbattere le frontiere nazionali e la cancellazione di tutti i debiti.

Non possono ottenere niente di tutto ciò. Lo sanno bene loro e lo sappiamo bene tutti. È troppo tardi. In un Paese che ha abbassato l’asticella dei sogni dei suoi cittadini, fino a confondere diritti e privilegi, ingiustizie e doveri. In un Paese che riesce sì a distribuire superfluità e tecnologie, ma che nega ai più il diritto di curarsi e di difendere i loro diritti di cittadini e lavoratori. Un Paese in cui un 1% della popolazione detiene il 34.6% della ricchezza nazionale e gli studenti ottengono le loro prestigiose lauree accumulando un debito medio di 25.000$, per andare a comporre l’ennesimo tassello di un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire.

E così, quando si gira per quella piazza tra i cori, le tende e i cartelloni c’è la sensazione che più che per realizzare i loro sogni, gli occupiers siano lì per vederli negli occhi degli altri. Ci si sente come se tutto ciò a cui realmente aspirano sia lo scoprire la partecipazione, in un paese governato da lobbies e multinazionali senza volti; come se fossero là per cercare un po’ di solidarietà in una società così individualista da impedire ai propri cittadini di realizzare che ci sono battaglie comuni che possono e devono essere combattute insieme, perché da soli diventano inaffrontabili.

Gli occupiers non possono cambiare l’America, ma noi da loro possiamo imparare molto. Perchè un paese in cui i soldi per l’abbassamento del fantomatico spread si vanno a cercare negando ai propri lavoratori una vecchiaia accettabile e alla propria classe media una vita decente, è un paese che sta perdendo la sua civiltà. Forse le ultime briciole di quella civiltà. Dobbiamo fare il possibile per impedire che ciò avvenga sotto qualsiasi governo, tecnico o non tecnico, di destra o di sinistra, di crisi o non di crisi. Quantomeno per non sprecare l’ennesima occasione di difendere la capacità di sognare quella società che la crescita ci ha permesso di intravedere, ma che questo progresso ci ha impedito di desiderare e rincorrere.

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Sarai in grado di capirlo solo molti anni più tardi, ma nel momento in cui nasci le scelte più importanti sono già state fatte.

Non saprai formulare parole né pensieri e per un po’ tutte le tue azioni saranno guidate solo dai tuoi istinti e dal tuo egoismo, ma gli altri già lo sapranno. Gli altri già sapranno il contesto familiare nel quale crescerai, con il suo carico di valori civili che ti verranno trasmessi. Conosceranno quale sarà la tua classe sociale e i valori sociali che ne assorbirai. Tutti intorno a te sapranno la lingua che parlerai e che questa ti impedirà di relazionarti direttamente con il resto del mondo; avranno chiara la mappa dei confini nazionali che rappresenteranno il limitato punto di vista dal quale guarderai il tutto, e sapranno che questi ti accumuneranno per sempre alla gente che li abita.

Per il resto puoi scegliere. E comincerai presto a farlo. Scegli un dio da pregare, sarà il tuo dio, diverso da quello di gente lontana e diversa, e si adatterà alle tue esigenze e al tuo stile di vita. Scegli una causa per cui lottare, che sia portata avanti da un’associazione, un sindacato, un leader o un’ideale, e non ti preoccupare se all’inizio non ti convincerà in pieno. Non sarà difficile accettarne tutte le sue contraddizioni se potrai godere anche solo di una parte dei suoi benefici. Se sei giovane e ancora non vuoi saperne di scegliere, scegli un gruppo al quale appartenere. Ce ne sono diversi, purtroppo non ti daranno alcun ideale né valore politico, ma offrono un pacchetto decisamente conveniente: con una decisione sola saprai quali vestiti indossare, a quali modelli fare riferimento, quale musica ascoltare e quali sono le differenze tra te e gli altri. Infine scegli una squadra da tifare, un partito politico da votare, un hobby con il quale tenerti occupato, un supermercato al quale chiedere la tessera punti, una palestra, una banca, dei posti da frequentare, un genere di libri da leggere, una rivista alla quale abbonarti, una lamentela da ripetere più frequentemente delle altre. A quel punto saprai chi sei. Gli aggettivi che da queste scelte deriveranno determineranno la tua persona e formeranno la tua identità. Saprai chi sono ‘i tuoi’ e chi sono ‘gli altri’.

Ma cosa succederebbe se un giorno ci svegliassimo e capissimo all’improvviso che tutte quelle categorie che per tutta la vita ci hanno divisi  in realtà non esistono?  Insomma, se non sentissimo più alcun senso di appartenenza..se non  capissimo più cosa ci fa appartenere ad una categoria piuttosto che ad un’altra e se tutte ci apparissero forzatamente create per comodità,  semplificazione o autodifesa. Forse inizialmente le cose non sarebbero facili. Perché tutto ad un tratto ci renderemmo conto che ci sono troppe bocche da sfamare e troppe ingiustizie troppo ingiuste da ignorare. Nessuno sarebbe più in grado di dirci quali morti compiangere e quali cause difendere. Realizzeremmo che, senza quelle categorie mai troppo vaste per non farci sentire persi e mai troppo piccole per non farci sentire soli, il nostro piccolo mondo coinciderebbe con il mondo intero. E tutte le cose che dalle categorizzazioni derivano  perderebbero ogni significato. Le guerre si ridurrebbero a semplice violenza e l’unica violenza esistente sarebbe quella istintiva, troppo breve per prevedere organizzazione e troppo personale per trovare alleati. La fede prenderebbe il posto della religione, la morale della politica. Sulle cose create vincerebbero gli istinti umani, vincerebbe l’umanità, e non intesa come insieme di esseri umani che abita il mondo ma come comune coscienza grezza che abita ogni essere umano del mondo. E forse, solo forse, se non ci fosse il senso d’appartenenza un altro mondo sarebbe possibile..un mondo definito dall’appartenenza ad una sola razza che non conosce niente di artificiale e finito.

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Se solo per un momento i politici di oggi e di ieri si guardassero alle spalle e ripercorressero tutto quello che hanno detto e fatto negli ultimi decenni, forse si renderebbero conto dell’immenso danno che hanno provocato. Forse più del debito pubblico, della precarietà e delle crisi finanziare sarebbero preoccupati delle conseguenze di tutto ciò: il vuoto e la confusione a cui troppi anni di egoismi, falsità e compromessi hanno portato.

Perché ad ogni legge ad personam, ad ogni strage di stato e ad ogni episodio di violenza nei cortei e nelle scuole, oltre alle vittime hanno ucciso il senso di giustizia. E non ce n’è traccia nelle forze dell’ordine corrotte, guidate dalla stessa rabbia di chi la giustizia la infrange, nello stato delle troppe ingiustizie sulle stragi e nei suoi rappresentanti, né tantomeno nei singoli modelli, se anche Saviano, ciò di più imparziale e disinteressato la nostra società riesce a proporci, fa luce sulle ingiustizie di casa sua e difende quelle che accadono altrove.

Se solo rileggessero le loro dichiarazioni e le loro interviste, realizzerebbero che ad ogni riferimento a valori e ideali fatto da ladri e corrotti per raccogliere un pugno di voti, hanno svuotato le parole del loro significato e della loro forza e ancora peggio hanno precluso la possibilità di essere creduto a chi domani in quelle parole crederà veramente .

Ma peggio di ciò che è stato detto e fatto è ciò che nessuno è riuscito a dire e fare: mai nessuno è riuscito ad indicare una via d’uscita, a proporre un’ alternativa, un modello ideologico, politico o civile che sia capace di dare alla politica uno scopo e ai suoi organi un senso.

Non c’è risposta nelle ideologie, che ci hanno lasciato i peggiori crimini contro l’umanità e il ricordo di uomini troppo superiori alla media che per teorizzarle hanno dovuto astrarre l’idea di tempo, luogo, e la natura dell’essere umano stessa.

Non c’è alternativa nei grandi partiti popolari di cui, a chi è nato troppo tardi per viverli, non rimangono che delle giustificazioni per un cashmere e una lista dei valori della sinistra pronunciata come spot elettorale da chi quotidianamente quei valori li rinnega.

Ma soprattutto non ha credibilità il modello politico al quale quotidianamente si riferiscono. Mentre inneggiavano alla democrazia e in nome di questa agivano, omettevano il fatto che non ce ne è un solo esempio che la renda credibile e che ha le sue ha le sue origini in una società classista ed uniforme che la rendono inimmaginabile nelle realtà contemporanee.

Ci hanno lasciato il vuoto e la difficoltà sempre più legittima e diffusa di trovare fiducia e risposte nella verità, nell’informazione, nella controinformazione, nei poteri, nei partiti, nelle istituzioni, nelle riforme, nella primavera araba e nel futuro…nella politica.

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Vorrei poter credere, come tutti sembrano fare in questi giorni, che le manifestazioni sempre più frequenti e frequentate siano sintomo di una profonda voglia di cambiamento degli italiani.  Vorrei potermi fidare dei sondaggi e ritenerli indicativi del fatto che la gente abbia voltato le spalle a questo governo e sia pronta ad andare oltre.

Credere a tutto ciò vorrebbe però dire attribuire ai popoli e nello specifico al popolo italiano una capacità di giudizio e un’elasticità di pensiero che sinceramente non credo gli appartenga.

Basta osservare ciò che forma l’opinione pubblica e il modo in cui questa si muove, per avere il dubbio che gli scontenti di oggi siano un fenomeno importante quanto naturale e passeggero e non il simbolo di una raggiunta maturità e una comune voglia di cambiamento.

Politicamente si possono dividere gli elettori in due categorie: gli schierati e gli indecisi. Le manifestazioni di questi mesi, i cortei e i sit-in sono per la stragrande maggioranza composti da persone precedentemente schierate, che non avrebbero votato centro destra indipendentemente dalle politiche di questo governo. Allo stesso modo chi vota a destra continuerà a farlo nonostante i futuri programmi del pd e i leader che proporrà`. Gli schierati perlopiu` non sono influenzabili, in quanto votano da una parte o dall’altre in base a concetti e ideali che quasi mai trovano riscontro nella realtà del partito, o in base a luoghi comuni che oggi non esistono ma che ai politici non conviene eliminare.

Allo stesso modo gli indecisi, che come risaputo alle elezioni sono decisivi, non decidono in base a fatti e dati che derivano dalla politica, in quanto la politica soltanto non fornisce prove sufficienti a formarsi un’opinione. I governi che si sono alternati negli ultimi decenni non sono mai riusciti a cambiare significativamente le condizioni delle persone, ma solo a convincere o scontentare, a seconda dello schieramento politico al quale appartenevano, pochi individui già schierati. E sono questi individui che, attraverso radio, televisioni, giornali, e conoscenze personali influenzano le scelte degli indecisi determinando il governo del paese.

Finche` la politica non comincerà ad occuparsi dei problemi reali e non dimostrerà con le sue leggi di poter influenzare la vita della gente, le persone non saranno in grado di formarsi un’opinione individuale autonoma che sia la base di un’opinione pubblica cosciente. Forse quando questo accadrà, le manifestazioni saranno sintomo di maturità e reale voglia di cambiamento. Per ora restano un fenomeno passeggero e la dimostrazione che i popoli non pensano.

 

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“Perché gli italiani tollerano da così tanto tempo i comportamenti di Berlusconi?” Era la domanda di un dibattito sul sito del New York Times a Gennaio, ed è la domanda che sempre più frequentemente ci viene rivolta dal resto del mondo. Le risposte sono diverse e quasi tutte concordano nel considerare gli italiani un popolo geneticamente diverso dagli altri popoli del mondo, costituito da furbetti irrimediabilmente attratti dalle donne e dalla bella vita, e quindi logicamente rappresentati da un uomo che di tutto ciò è l’incarnazione.

In questi giorni i media Americani non fanno altro che parlare di Charlie Sheen, attore della serie tv ‘Due Uomini e Mezzo’ recentemente licenziato dalla sua compagnia di produzione perché coinvolto in scandali di prostituzione e droghe. Parlandone con la gente ma anche navigando su internet non è difficile trovare commenti di simpatizzanti che lo giustificano e lo ammirano, portando motivazioni molto simili a quelle usate dai difensori di Berlusconi.

Non voglio paragonare una star della tv ad un Presidente del Consiglio, ma evidenziare come la condotta di un certo tipo di vita da sempre e ovunque attragga l’ammirazione di una parte di opinione pubblica. Alcuni comportamenti, il gusto per l’estremo e la predilezione per scelte lontane dai canoni della morale comune hanno innegabilmente un certo fascino, in Italia come in Alaska come in molti altri paesi. La differenza tra l’Italia e il resto del mondo, ciò che rende Berlusconi un fenomeno totalmente italiano e impensabile altrove, non sono gli italiani ma piuttosto la loro classe governativa e il suo modo di governare. Il provincialismo applicato alla gestione di ogni apparato pubblico e privato, la mediocrità con cui sono svolti anche i ruoli più importanti, l’inadeguatezza e l’inettitudine di chi è chiamato a decidere delle sorti del nostro Paese.

Non siamo l’unico paese al mondo a rubare le saponette negli hotel e a strizzare l’occhio a chi insegue donne di venti anni più giovani, piuttosto siamo l’unico paese al mondo in cui le casse di stato vengono gestite come i salvadanai di casa. Dove i politici si scambiano firme e voti come si trattasse di figurine Panini, e il capo dell’opposizione si da malato quando c’è da votare il decreto milleproroghe come il furbetto della classe il giorno dell’interrogazione.

Se un deputato di New York si dimette per una foto a torso nudo su internet e un politico svedese per un Toblerone pagato con la carta di credito del partito, non è perché` negli Stati Uniti o in Svezia questi comportamenti sono inimmaginabili per la gente comune. E` perché` esistono istituzioni, organi di governo, cariche istituzionali che rendono questi comportamenti inammissibili e così facendo diffondono tra popolazione un senso civico che non necessariamente gli appartiene a priori.

Noi italiani non siano geneticamente peggiori degli altri, piuttosto mettiamo tradizionalmente al potere i peggiori dei nostri. La buona notizia è che possiamo cambiare. Quella cattiva è che essere italiani non è una scusa per continuare a non farlo.

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Un po` di  tempo fa` mi e` capitato di conoscere dei ragazzi che facevano parte della marina militare. Non ho mai avuto una grande considerazione di chi sceglie di arruolarsi nell’esercito, specialmente se si tratta, come in questo caso, di quello americano. Ma i miei pregiudizi e le mie teorie crollavano mano a mano che conoscevo le loro storie. Storie di famiglie sfasciate, padri alcolizzati, infanzie povere in paesini isolati del Nord America o nelle periferie delle grandi citta`. L’esercito aveva dato a questi ragazzi un posto dove stare, i soldi per l’universita`, la possibilita` di far carriera e di aspirare ad una vita diversa da quella dei loro genitori. Ho capito il loro attaccamento alla divisa, e mi e` mancato il coraggio di dire che e` proprio questo cio` che piu` odio del sistema americano: il suo riuscire sempre a guadagnarsi l’amore di quelli contro cui piu` si accanisce.

Mi e` capitato di ripensare a questa storia guardando una puntata di Annozero nel momento in cui un giornalista andava ad intervistare un compaesano di Ruby. – Ruby ha fatto bene, ce l’ha fatta – . – Ce l’ha fatta? -, gli chiedeva il giornalista. – Se ne e` andata da qua, quindi ce l’ha fatta. – E c’e` da crederci che, pur di uscire da quel paesino di 2.700 abitanti in provincia di Messina, se Berlusconi fosse stato un po` meno selettivo nello scegliere i beneficiari della sua generosita`, anche il signore avrebbe accettato di partecipare ai bunga bunga presidenziali. Con tanto di vestitino da infermiera con niente sotto. Ma lui quest’opportunita` non l’ha avuta e non gli resta che lavorare. Ruby nella sfortuna ha avuto la fortuna di nascere con un bel corpo. E ha scelto di usarlo come biglietto di uscita dalla vita alla quale era destinata.

Inutile dire che non condivido la scelta. Ed e` troppo facile ricordare che ci sono altri modi per ‘farcela’. E` vero, avrebbe potuto fare altro. Avrebbe potuto studiare o trovarsi un lavoro onesto. Ma la verita` e` che troppo spesso i figli di operai diventano operai e i dottori sono figli di dottori. Ruby e` la figlia di un venditore ambulante, un vucumpra`. Ha scelto di fare la escort, la prostituta. Avrebbe potuto fare tante altre cose, nessuna delle quali le avrebbe fatto guadagnare in un anno i soldi che le e` capitato di guadagnare in una notte.

Fanno bene le donne che si sentono offese a scendere in piazza. Ma io non riesco a schierarmi fino in fondo contro chi vende il proprio corpo perche` non ha ricevuto dal destino offerte migliori. Cosi` come non colpevolizzo chi sceglie l’esercito come alternativa al nulla. Piuttosto mi offendono i sistemi che rendono queste scelte considerabili o addirittura necessarie. Le donne devono protestare, ma con loro anche i professori, i politici, i genitori,  i rappresentanti delle istituzioni e chiunque cerchi di educare i ragazzi alla ricerca di un futuro migliore. Tutti insieme, contro un presidente del consiglio simbolo di un sistema che non e` capace di offrire alle proprie giovani piu` sfortunate un’alternativa migliore alla prostituzione.

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Non voglio sminuire l’eroismo di Fini e di Bersani, che hanno sfidato l’altitudine per arrampicarsi sui tetti come simbolo di vicinanza ai precari e agli studenti. Ne’ tantomeno intendo mettere in discussione le parole di tutti quei politici che, da destra a sinistra, a turno esprimono la loro solidarieta` per questa generazione P , che non avra` posto fisso ne` futuro. Seguendo pero` gli avvenimenti di questi ultimi periodi, un dubbio mi sorge spontaneo: se il bunga bunga di Berlusconi fa scandalo senza che le maggiori fonti di informazione del nostro paese (tg1  e tg5) ne parlino obiettivamente, se la rivoluzione egiziana viene diffusa da facebook e wikileaks fa tremare la piu’ grande potenza del mondo, siamo proprio sicuri di essere noi quelli senza futuro?

E’ vero che questo sistema non sembra offrirci lavoro ne’ certezze. Le industrie non trovano mercato; nuove potenze avanzano cambiando gli equilibri su cui per un secolo ci siamo basati; il pianeta non puo’ piu’ sostenere il nostro stile di vita e gli stati non possono piu’ permettersi la corruzione e le politiche delle loro classi dirigenti. Se il nostro futuro lo cerchiamo all’interno di questo sistema, il pessimismo e` d’ obbligo per il semplice fatto che e` il sistema stesso a non averne alcuno.

Cio` che serve agli stati in crisi non sono altri prestiti per allungarne l’agonia ed aumentarne il debito pubblico, e cio` a cui noi dobbiamo mirare non e` un contratto in un azienda che presto o tardi fallira`. Servono cambiamenti reali, servono nuove idee, nuove soluzioni. Tutte cose che al momento sembrano astratte e irrealizzabili, ma che nessuna generazione come la nostra ha la possibilita` di trovare e rendere concrete.

Abbiamo dalla nostra un sistema che e` tutto da migliorare e il fatto di essere la prima generazione cresciuta nell’ era internet. Internet che ha eliminato, almeno parzialmente, le distanze territoriali e che ci da` quotidianamente la possibilita` di entrare in contatto con altre culture ed altri mondi, scoprendone le visioni e  confrontandole con le nostre.  Internet che ha reso l’informazione  attiva e quindi democratica in uno dei momenti peggiori per la nostra democrazia. Internet che, in questo momento, tra i giovani premia proprio chi di questo sistema cerca di scoprirne le debolezze e propone idee per cambiarlo.

Non sara` abbastanza per darci certezze, ma e` quanto basta per darci speranza. Magari non saremo noi quelli senza futuro.

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Ci siamo: è arrivato il giorno del voto di mozione di sfiducia al governo. Fuori si riuniscono i manifestanti, con la speranza che questa giornata segni davvero l’inizio di qualcosa di nuovo. Dentro intanto arrivano i parlamentari, consapevoli del fatto che oggi, ogni singolo voto, può segnare la fine del governo e non solo.

Dentro si inizia a votare,  fuori cominciano a sfilare i cortei. Cortei politicizzati, perché a quelli fuori viene insegnato che arriva un momento nella vita di tutti in cui bisogna fare i conti con le proprie idee e scegliere tra destra e sinistra. Anche dentro lo sanno bene,  per questo stabiliscono il prezzo e valutano le offerte. Basta poco e il clima diventa teso. Fuori tra urla rabbiose volano manganellate e bombe carta. Dentro, cribbio, la Polidoro vota no, Granata e Conte arrivano alle mani e Fini sospende la seduta.

Fuori adesso è una vera e propria guerriglia. Caschi blu contro resto del mondo. Dentro vestono tutti la stessa divisa e passano da una parte all’ altra senza bisogno di cambiarsi di maglia. Fuori un ragazzo che si dichiara minorenne impugna una pala ed avrà qualche guaio con la giustizia. Dentro un signore con la passione per le minorenni tira fuori il portafoglio e rimanda a data da definire tutti suoi guai con la giustizia.

Dentro, tutto quello che fanno, lo fanno per il bene del popolo italiano. Fanno lodi per il bene del popolo italiano. Approvano leggi per difendere gli interessi del popolo italiano. Votano la fiducia al governo perchè questo è ciò che il popolo italiano vuole. Fuori, questo  popolo italiano nessuno ha capito bene chi sia. Alcuni dicono che sia quello seduto davanti alla televisione che crede al Tg1 e sogna il Grande Fratello, altri quello dei cortei colorati, altri ancora quello della guerriglia. E se fosse sempre lo stesso che, quando vede la possibilità di un corteo o una guerriglia, spegne la televisione e scende a sfogarsi in piazza?

Adesso è tutto finito. Dentro è stata votata la fiducia. Dalle dichiarazioni sembrano tutti moderatamente contenti e moderatamente preoccupati. Un po’ vincitori e un po’ sconfitti. Salgono sulle loro auto blu e guardano dal finestrino Roma distrutta.

Fuori hanno perso tutti e tutti hanno perso la fiducia. Ha perso la civiltà, ha perso la democrazia, ha perso la ragione, ha perso la politica. Tornano a casa svuotati, si siedono davanti alla televisione e sullo schermo guardano passare le immagini dei sorrisi dei parlamentari e delle strade di Roma devastate.

Dicono che abbia vinto la fiducia. Ma forse due mondi così diversi non potranno mai chiamare una cosa con lo stesso nome.

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