bloud nasce dal vuoto, di quel vuoto si nutre e in quel vuoto spera di rimbombare

Ho seguito il movimento di Occupy Wall Street fin dall’inizio. Ho visto le marce sul ponte di Brooklyn, la manifestazione di Times Square, il discorso di Saviano, le repressioni della polizia, lo sgombero di Zuccotti Park e la sua rioccupazione. L’atmosfera è sempre bella. Ci sono i cori, gli slogan, la solidarietà e la partecipazione. C’è la felicità. 

Ma proprio lì, radicata nella felicità della gente c’è anche la sconfitta del progresso e della società moderna.
Sta nascosta in una felicità genuina e spontanea, molto simile a quella della folla che il 12 novembre scorso si riversava in piazza del Quirinale per festeggiare il fatto che un puttaniere indagato e corrotto stesse lasciando la poltrona su cui si era seduto per 7 anni, spinto dal rischio dell’imminente fallimento economico del suo paese.

Ho parlato con molti degli occupiers e sentito molti commenti a riguardo. Zuccotti park, cuore pulsante della protesta, è per la stragrande maggioranza frequentato da studenti di college pubblici, giovani delle classi più basse e hippies, novelli o nostalgici. Si ispirano a Marx e citano Jefferson, vogliono abbattere il capitalismo ed eliminare le banche. Hanno un programma utopico che tra i suoi punti propone di statalizzare le università, abbattere le frontiere nazionali e la cancellazione di tutti i debiti.

Non possono ottenere niente di tutto ciò. Lo sanno bene loro e lo sappiamo bene tutti. È troppo tardi. In un Paese che ha abbassato l’asticella dei sogni dei suoi cittadini, fino a confondere diritti e privilegi, ingiustizie e doveri. In un Paese che riesce sì a distribuire superfluità e tecnologie, ma che nega ai più il diritto di curarsi e di difendere i loro diritti di cittadini e lavoratori. Un Paese in cui un 1% della popolazione detiene il 34.6% della ricchezza nazionale e gli studenti ottengono le loro prestigiose lauree accumulando un debito medio di 25.000$, per andare a comporre l’ennesimo tassello di un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire.

E così, quando si gira per quella piazza tra i cori, le tende e i cartelloni c’è la sensazione che più che per realizzare i loro sogni, gli occupiers siano lì per vederli negli occhi degli altri. Ci si sente come se tutto ciò a cui realmente aspirano sia lo scoprire la partecipazione, in un paese governato da lobbies e multinazionali senza volti; come se fossero là per cercare un po’ di solidarietà in una società così individualista da impedire ai propri cittadini di realizzare che ci sono battaglie comuni che possono e devono essere combattute insieme, perché da soli diventano inaffrontabili.

Gli occupiers non possono cambiare l’America, ma noi da loro possiamo imparare molto. Perchè un paese in cui i soldi per l’abbassamento del fantomatico spread si vanno a cercare negando ai propri lavoratori una vecchiaia accettabile e alla propria classe media una vita decente, è un paese che sta perdendo la sua civiltà. Forse le ultime briciole di quella civiltà. Dobbiamo fare il possibile per impedire che ciò avvenga sotto qualsiasi governo, tecnico o non tecnico, di destra o di sinistra, di crisi o non di crisi. Quantomeno per non sprecare l’ennesima occasione di difendere la capacità di sognare quella società che la crescita ci ha permesso di intravedere, ma che questo progresso ci ha impedito di desiderare e rincorrere.

 
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